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Teatro Pietro Aretino – Arezzo

HOTEL MIRAMARE

testo e regia di Riccardo Rombi
assistente alla regia e traduzione
Ulpia Marcela Popa
con Aleksandrina I. Costea, Elena Popa, Rosario Campisi, Francesco Franzosi
direttore di scena Lidia Baciu
luci Siani Bruchi, Martino Lega, Bako Zsigmond, Barbuj Zoltán

una coproduzione Catalyst – TAM Teatrul

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Tre turisti armati di coupon e gadget da viaggio al seguito di una guida con tailleur e foularino rosso al collo per un tour culturale bizzarro e inconsueto. In un futuro immaginario non meglio precisato … ma tuttavia neanche troppo lontano, i partecipanti a una gita organizzata vengono portati a visitare un edificio ormai desueto e dimenticato. «Lo chiamavano “teatro”, laggiù seduto stava il “pubblico” rigorosamente al buio e qui sul palco gli “attori” recitavano gli spettacoli di Moliere, Shakespeare, Goldoni … ».
La guida illustra con aria annoiata mentre i turisti ascoltano, gli sguardi persi alla ricerca di un segno, un significato, delle tracce di sé, sondano oltre l’orizzonte della platea. C’è chi rimane basito, chi prende appunti, chi fa domande, poi la guida bruscamente termina la sua breve escursione e invita i clienti a tornare al bus per rientrare in albergo.
Ecco che gli animi si accendono e si riscaldano. Dov’è lo spettacolo? Il programma parlava di visita al teatro più spettacolo. Dunque perché adesso lo spettacolo non c’è?
“Non ci sono gli attori!” Questa la disarmante e sbrigativa risposta della guida alzando le spalle. Niente attori, niente spettacolo! E’ tutta una finzione, anche l’Hotel si chiama Miramare ma non affaccia sul mare … è un nome di pura fantasia, come spiega l’asterisco in fondo alla brochure.
La calma piatta e regolare della loro vita ha una increspatura … qualcosa di inevitabile e irrefrenabile sta per accadere. L’atmosfera di quel luogo, carico di storia ancestrale, ha risvegliato i personaggi dal letargo arrugginito nel vorticoso meccanismo del vivi, consuma e muori. I visitatori decidono di recitare loro stessi lo spettacolo e, così facendo, accade loro una magia. “A cosa serve il teatro?” Avevano chiesto. “A vedere il mondo con altri occhi” Era stata la laconica risposta. Ai protagonisti di questa storia, onirica e surreale, accade proprio questo; il mondo appare loro sotto altri occhi e tornare a camminare a testa bassa nello squallore delle loro esistenze, di punto in bianco, risulta improponibile.
Hotel Miramare scaturisce dall’esigenza di indagare, tramite un linguaggio il più possibile universale, i paradossi che attraversano rapidamente la nostra società, sempre più stravolta da crisi e cambiamenti culturali e sociali così profondi e radicali da farci perdere il contatto con la realtà e, sopratutto, con la bellezza e il senso della vita. Attraverso una drammaturgia raffinata e intelligente, rigorosamente bilingue e senza sottotitoli (tranne che nel finale), grazie a un linguaggio essenziale, lo spettacolo consente di essere compreso perfettamente da tutti. I dialoghi fluiscono in un gioco linguistico brillante e tanto profondo da farci sfiorare e percepire il “buio che c’è là fuori”, senza perdere di vista il sorriso e il potere catartico dell’ironia. Hotel Miramare rappresenta una nuova sfida, provocatoria e stimolante in direzione di una ricerca di nuove modalità di fare un teatro davvero libero, anche dai propri stessi confini, rivolgendosi a un interlocutore universale e a un pubblico transgenerazionale per condurlo, in sintesi, a riflettere sul ruolo del Teatro nella nostra vita.

La regia contemporanea significa, soprattutto, riscrivere il ruolo del pubblico come elemento attivo del sistema scenico. Questa presenza modifica continuamente i codici teatrali e crea le condizioni per continui esperimenti artistici. L’Hotel Miramare è costituito da una spaccatura tra il Teatro, nella sua veste di narratore straniero e distratto, e la povertà esistenziale della società contemporanea. Il protagonista dello spettacolo è il teatro, come architetto sperimentale, elemento ancora in grado di alterare l’esistenza di quell’animale sempre più fragile chiamato uomo“.
Riccardo Rombi

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Teatro Pietro Aretino – Arezzo

Bahamut
IT’S APP TO YOU – O DEL SOLIPSISMO

da un’idea di Leonardo Manzan
di e con Andrea Delfino, Paola Giannini, Leonardo Manzan
regia Leonardo Manzan
drammaturgia Camilla Mattiuzzo
scenografia e costumi Bahamut
illustratore Rocco Venanzi
Compagnia Bahamut  

Spettacolo selezionato tra i vincitori della III^ edizione del Bando Giovani Direzioni, promosso dal Centro Teatrale MaMiMò, in collaborazione con Scuola Paolo Grassi di Milano, Comune di Cernusco Sul Naviglio, Karakorum Teatro di Varese, Residenza Ilinxarium di Inzago, Manifattura K di Pessano con Bornago, all’interno del Progetto FUNDER 35, e realizzato con il contributo della Fondazione Cariplo.

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Un teatro. Un videogioco interattivo. Un omicidio da risolvere. 46 si risveglia in una stanza, sul pavimento una pistola e del sangue, è appena stata assassinata ma ha ricordi confusi. Non le resta che scoprire l’assassino e vendicare la sua morte. “It’s app to you” l’applicazione che 47, spettatore inconsapevole selezionato dalla platea, deve scaricare per connettere il proprio smartphone al videogioco e poter guidare 46 nello svolgimento delle indagini. Le indagini cominciano, indizio dopo indizio, ma sembra una storia senza capo né coda: nessun sospettato, nessuna prova. Tutto sembra portare 47 ad una sola sentenza finale: 46 si è suicidata. Così, per risolvere il gioco ed uccidere l’assassino, non può fare altro che uccidere nuovamente 46. Una trama che si morde la coda, destinata a ripetersi all’infinito. La finzione è molto realistica e tra il giocatore e la realtà virtuale esiste ormai un legame che rende la scelta più complicata del previsto. Scelta che però non può essere elusa in alcun modo. La partita però non termina, la missione non è compiuta. Algoritmo, che dalla regia detta le regole del gioco e muove i fili a proprio piacimento, decreta il “Game Over”. Il gioco ricomincia daccapo. Stesso caso, stesse indagini, ma stavolta qualcosa è cambiato: 47 si scopre all’interno del gioco, giocatore e contemporaneamente personaggio della storia. Le nuove indagini parlano chiaro: 47 è diventato l’ assassino. Portando a termine la prima partita si è macchiato dell’omicidio di 46. Algoritmo, dalla regia, si gode lo spettacolo di sua creazione. La finzione, come spesso accade, ha divorato la realtà. Lo scopo del gioco rimane lo stesso: uccidere l’assassino.

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Teatro Pietro Aretino – Arezzo

Teatro Metastasio / Teatro Metropopolare
GIOIA

drammaturgia e regia Livia Gionfrida
scene e animazioni Alice Mangano
luci Roberto Innocenti
musiche e suoni Andrea Franchi
assistente alla regia Giulia Aiazzi
con Livia Gionfrida

direttore dell’allestimento Roberto Innocenti
direttore di scena Marco Serafino Cecchi
capo elettricista Michele Percopo

dipinti Nicola Console
direzione fotografia animazioni Marianne Boutrit
montaggio video Roberto Losurdo
foto e video documentazione Duccio Burberi
logistica Rebecca Polidori

produzione Teatro Metastasio di Prato in collaborazione con Teatro Metropopolare

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Gioia è una storia d’amore senza tempo, quella tra una madre e un figlio difficile. Un ragazzo “testa di legno” che decide giovanissimo di intraprendere la cattiva strada e alla fine di lanciarsi in una Grande Impresa che lo condurrà tra le braccia di un ingiusto e paradossale destino. In un ribaltamento finale di personaggi buoni e cattivi, lui “tutto sbagliato” passa da colpevole a vittima. La tragicomica rappresentazione diventa per la madre l’unico strumento per cercare di capire, per ricostruire i fatti e farsi una ragione della perdita e dell’ingiustizia subita.
In scena dialetto siciliano e animazioni video si alimentano di suggestioni letterarie e simboli provenienti dall’immaginario religioso, fatti di cronaca e interviste realizzate in carcere. Ne viene fuori una singolare drammaturgia originale sospesa tra fiaba e realtà, che ha per protagonisti gli ultimi, i calpestati.

Note di regia
Da qualche anno ho nella testa l’idea di fare uno spettacolo che parli di morti ammazzati per mano dello Stato. Non è un argomento facile per me. Lavoro in carcere, dove da molto tempo conduco una singolare esperienza di ricerca teatrale. Ho conosciuto in questi anni molti detenuti e conosco il duro impegno di chi, agenti e operatori, opera all’interno degli istituti di pena, ma per mia stessa natura non sono interessata a tracciare un confine netto tra buoni e cattivi e amo semmai interrogarmi intorno alla natura umana. Chissà, forse è proprio per questo che faccio teatro, ed è ancora per questa ragione che negli ultimi anni ho scelto come residenza artistica ideale, un istituto penitenziario. Non ho mai pensato né prodotto spettacoli del genere che viene definito ‘sociale’, né tantomeno mi sono mai occupata del cosiddetto genere ‘civile’, anche se conosco e stimo alcune importanti esperienze che si definiscono così. Ci sono però alcune storie che sento maturare dentro di me e che ho bisogno di trasformare in domande, in immagini e carne. Le storie di Stefano Cucchi e di altri che come lui hanno attraversato insieme alle loro famiglie un terribile calvario, le vicende e i crimini commessi lungo la cattiva strada che alcuni detenuti mi hanno raccontato in questi anni, hanno acceso in me la necessità di provare a scrivere questo monologo. Che non vuole essere ‘civile’ ma che spero diventi, semplicemente ‘teatro’.  Il lavoro qui proposto fa parte di un fecondo progetto che ha dato vita a studi autonomi e molto distanti tra loro. Gioia ne rappresenta lo sviluppo, il punto estremo senza ritorno, in cui nascita e morte si incrociano e perdono i contorni.
Livia Gionfrida

Teatro Petrarca – Arezzo

Compagnia Pippo Delbono
LA GIOIA

di Pippo Delbono

con
Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella e con la voce di Bobò
Composizione floreale Thierry Boutemy
Musiche di Pippo Delbono, Antoine Bataille, Nicola Toscano e autori vari
luci Orlando Bolognesi
ettricista Orlando Bolognesi/Alejandro Zamora – suono Pietro Tirella/Giulio Antognini – costumi Elena Giampaoli
capo macchinista e attrezzeria Gianluca Bolla/Enrico Zucchelli
responsabile di produzione Alessandra Vinanti –  organizzazione Silvia Cassanelli
direttore tecnico Fabio Sajiz
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzione Théâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale

Si ringraziano: Enrico Bagnoli, Jean Michel Ribes, Alessia Guidoboni assistente di Thierry Boutemy e Théâtre de Liège per i costumi

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Ogni spettacolo può essere un viaggio, un attraversamento di situazioni, stati d’animo, intuizioni diverse, che ti colgono di sorpresa. La recita di ogni sera non è più recita, ma è un rito, è un apparire e un gesto unico che lega chi agisce a chi guarda, in un comune respiro. Fare uno spettacolo sulla gioia vuol dire cercare quella circostanza unica, vuol dire attraversare i sentimenti più estremi, angoscia, felicità, dolore, entusiasmo, per provare a scovare, infine, in un istante, l’esplodere di questa gioia. Invece di fissarsi in delle immagini, dei suoni, dei movimenti sul palcoscenico, Pippo Delbono e gli attori della sua compagnia cercano di compiere ogni giorno un passo in più verso questa esaltazione assoluta, questa bruciante intuizione. Ecco allora il circo, coi suoi clown e i suoi balli. Ecco pure il ricordo di uno sciamano che con la follia libera le anime. Ecco quindi malinconie di tango e grida soffocate in mezzo al pubblico. Ecco una pienezza di visioni, che si susseguono, si formano, si confondono e si perdono una via l’altra, centinaia di barchette di carta, sacchi di panni colorati a comporre, sembra, quel «mare nostro che non sei nel cielo» della laica preghiera di Erri De Luca, fino all’esplosione floreale, creata da Pippo assieme a Thierry Boutemy, il fleuriste normanno di stanza a Bruxelles e abituato a lavorare in lungo e in largo per il mondo.
Gli attori di Delbono salgono così sul palcoscenico uno dopo l’altro e prendono, ognuno con il suo diverso sentire, il pubblico per mano e ne fanno un compagno di viaggio, parte di una comune ricerca inesauribile. Storie personali, maschere, danze, clownerie, memorie sono tutte sfuggenti immagini di persone alla ricerca della gioia.
Così, se ogni replica è la tappa di un viaggio, ogni frammento che compone lo spettacolo è un singolo passo. Il viaggio non si arresta mai, così come la girandola caleidoscopica di sentimenti e immagini. Ogni replica regala una sorpresa, a chi decide di mettersi in cammino e seguire il ritmo della compagnia e di questa ricerca infinita della gioia.

Teatro Petrarca – Arezzo

Nuovo BallettO di ToscanA
BELLA ADDORMENTATA

regia e coreografia Diego Tortelli
musiche P.I Tchaikovsky
drammaturgia musicale Francesco Sacco
luci Carlo Cerri
costumi Santi Rinciari
foto Marco Caselli Nirmal
compagnia Nuovo BallettO di ToscanA diretta da Cristina Bozzolini

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Viviamo in una società frenetica, in continuo cambiamento e con l’ossessiva ricerca della perfezione, che ci allontana sempre di più da noi stessi e dal mondo che ci circonda, dove nulla è perfetto, ma solo una costante lotta tra armonia e caos.
Reagiamo creandoci un immaginario perfetto persino nel rapporto di amore, ed è questa la prospettiva attualizzata di questa mia versione de La bella addormentata ambientata nelle strade frenetiche di una metropoli qualsiasi, dove tutti sono sempre di corsa alla ricerca disperata di realizzare il loro sogno perfetto.
Tra la moltitudine si differenzia un giovane scrittore solitario, il protagonista di questa mia versione, autore di poesie d’amore, povero e isolato dal mondo reale, proprio a causa della sua ossessione per la perfezione; egli trova solo conforto nei suoi sogni e nella sua immaginazione, creandosi un ambiente di pura fantasia, una stanza esclusiva per incontrare Aurora, figura perfetta dell’amore, frutto del suo inconscio, cui dedica poesie totalmente idealizzate ma sempre irrisolte, irreali, fittizie.
Questa stanza dei sogni è animata dai personaggi della vicenda con al centro un Aurora immaginata nella sua perfezione, in una presenza contrastata anche da Carabosse, la strega crudele, che altri non è che il suo alter ego, il suo lato oscuro, le sue paure, il suo isolamento dal mondo reale.
Il punto di rottura delle sue ossessioni sarà allora quando riuscirà a sconfiggerlo, accettando se stesso e portando la sua immaginata Aurora in un sogno profondo.
Quella stanza vuota, quella pagina bianca si colmerà allora di parole, incontri e sensazioni reali e non illusioni di un mondo astratto.

durata: 1h 20’

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Teatro Pietro Aretino – Arezzo

STANNO TUTTI MALE

uno spettacolo di e con
Riccardo Goretti, Stefano Cenci e Colapesce

direttore dell’allestimento Roberto Innocenti
assistente all’allestimento Giulia Giardi
cura della produzione Camilla Borraccino
ufficio stampa Cristina Roncucci
foto e videodocumentazione Ivan D’Alì
progetto grafico e editing Francesco Marini
immagine del manifesto di Nova

direttore di scena/macchinista Marco Mencacci
audio/luci Francesco Baldi
soluzioni sceniche Rocco Berlinigeri

produzione Teatro Metastasio di Prato e laCoz

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“Mal di testa per cui hai provato di tutto:
gli infusi, gli amori casuali e la skunk…
e ti sei messa anche a pregare.”
[Colapesce – Quando tutto divento blu]

“Sto male.”
Può voler significare “sto davvero male”, un dolore fisico persistente che non passa, un problema reale, o anche un disagio mentale, un attacco di panico, altrettanto reale.
Può voler significare “non mi sento al 100%”, ma neanche al 50, ma a volte neanche al 10. Può voler significare “ho mangiato troppo”, “ho bevuto troppo”, “ho dormito troppo”… oppure anche troppo poco. Addirittura può voler significare “questa cosa mi fa davvero ridere”. Pensate voi.
È per questo che questa frase la usiamo talmente tanto, che non significa più nulla.
Viviamo in un mondo schizofrenico dove se non soffri, se non stai male, vuole dire che non ti impegni, che non sei impegnato, che non stai dando il massimo, che non sei sceso nel profondo, che non c’è il sacrificio (ah, bel retaggio culturale questo) e allo stesso tempo dove bisogna obbligatoriamente trovare la forma per essere al passo coi tempi, aggiornati su tutto, pronti a sfoggiare ironia e sarcasmo, gridare da finestre – spesso chiuse – “io esisto.” La forma della sofferenza è sempre condensata in un party continuo, un disimpegnato frullatore di tutti e tutto, in cui stiamo tutti a fotografare i nostri sorrisi, le nostre gite, le nostre pietanze, i nostri piedi, le nostre prove, i nostri successi, e non riusciamo proprio più a definire, in questo zapping intimo e personale, se stiamo bene o stiamo male.
Ci sono domande importanti dietro il piccolo spunto iniziale di questo lavoro: “La nostra società sta bene o sta male? E qual è il termine di paragone di questo stare bene o male? Quale è la scala del bene e del male? E i singoli individui stanno bene o male? È poi possibile che stiano bene gli individui di una società che sta male? E viceversa? E poi, in fondo, è mai stato diverso di così? L’essere umano ha mai trovato ha mai trovato pace in vita o è la vita stessa un continuo mutare e una declinazione ad altra vita, passando da continue morti, e per questo portatrice di sofferenza?” Ma a queste domande non ci interessa dare una risposta. Noi ci sentiamo più che altro dei ritrattisti, anzi forse caricaturisti, di interessa farne un affresco, dando voce a questo benedetto uomo contemporaneo, sentire in cosa crede, di cosa ha paura, cosa lo fa stare bene e cosa male e possibilmente riderne, riderne molto, smisuratamente. Perché c’è davvero bisogno per tutti – checché se ne dica – di ridere come bambini, anche senza motivo, di riderci addosso, perché alla fine si vede… stanno tutti male.

PERCHÉ STANNO TUTTI MALE?
Per chiarirci le idee, siamo andati nell’unico posto del mondo dove oramai si trovano le risposte: no, non in India. Su internet. Abbiamo lanciato un grande sondaggio, chiedendo ai nostri followers come, quanto, perché. Hanno risposto. Abbiamo ascoltato, filtrato, rimodellato, ricomposto. E poi abbiamo alzato il volume.
Diceva Voltaire “Tutto ciò che è troppo stupido per essere detto, viene cantato”. Infatti. Benvenuti dunque nel più tragicomico dei karaoke bar, dove potrete scoprire con noi, in poco più di un’ora, perché stanno tutti male.

Per la stesura del testo di questo spettacolo si è dunque proceduto, come è metodo per molti di noi artisti di questa scena del contemporaneo, e soprattutto come è metodo nella scrittura di Riccardo Goretti (prima con Gli Omini, poi in solitaria) a nutrirsi di una indagine collettiva. Indagine collettiva che sia la più ampia possibile, un attraversamento dell’intimo umano, in quel diario segreto ma pubblico, personale ma sprovvedutamente e narcisisticamente – spesso – esposto, che è la rete. Internet. I social. Dove tutto è buttato in piazza, in un flusso, dove si distingue a malapena il vero dal falso, spettacolo ininterrotto e quotidiano dove riversiamo (sì, anche noi) tutto quello che ci parte da dentro, che sia “alto” o importante, o futile e autoreferenziale.

Per la messa in scena, affidata invece al più delirante immaginario di Stefano Cenci (si pensi all’imponente “Del Bene, del Male” realizzato per E.R.T.), ci siamo basati sulle suggestioni che uscivano fuori dagli scritti che ci erano stati inviati – ed alle nostre esigenze performative. Il luogo del karaoke bar è venuto quasi da sé, quasi spontaneo. Il resto lo vivrete con noi sulle assi del palco.

Per le musiche, non ci poteva essere artista più appropriato di Colapesce, cantautore eclettico, malinconico e solare allo stesso tempo come la sua terra d’origine, con un grande senso dell’umorismo e una altrettanto grande voglia di mettersi in gioco (si vedano le sue numerose collaborazioni con altri artisti in branche lontanissime dalla sua sfera di competenza… ad esempio il fumetto “La Distanza” realizzato per BAO insieme ad Alessandro Baronciani).

“I bambini sono contenti perché i genitori non ci sono,
e loro possono mangiare i dolciumi.
Possono giocare con l’acqua in casa, con la palla in salotto
e portare tutti i giochi davanti alla tv.
Possono stare svegli fino a tardi
senza lavarsi i denti e i piedi
scrivere e disegnare sui muri
e domani niente scuola.
I ragazzi sono felici perché da soli possono mettere la musica a tutto volume
possono telefonare agli amici e incontrarsi di nascosto
darsi lunghi baci bagnati e frugarsi nei pantaloni
finché non inizia la partita
finché ci sono sigarette da spegnere
e lattine di birra nel frigo di mamma da svuotare.
Gli adulti stanno bene perché sono fuori a cena e non tornano presto
ognuno per sé, qualche giorno di libertà
a fare quelle cose che hanno visto nei film
ad amarsi come suggeriscono le canzoni alla radio.
Gli anziani fuggono dai loro dormitori,
non hanno più acciacchi da qualche ora e vorrebbero camminare
fino a non saper più tornare indietro
fino a non ricordarsi più chi sono
né da dove sono venuti.
Stanno tutti così bene, Stanno tutti davvero bene.
Gli uni senza gli altri. Senza occhi addosso, equilibristi senza rete.
Che se poi glielo chiedi si sentono soli.
E, d’improvviso, nuovamente, stanno tutti male.”

Stefano Cenci
Riccardo Goretti
Lorenzo Urciullo (in arte Colapesce)